16.11.2023
Olimpico. Settant’anni di storia
È il 1953 quando l’Italia scende in campo contro la grande Ungheria di Puskas. È l’inaugurazione dello Stadio Olimpico, realizzato per i Giochi del 1960 con sette anni di anticipo e che compie 70 anni. E addirittura novanta se torniamo ancora indietro nel tempo al primo invaso con le tribune d’erba intorno denominato Stadio dei Cipressi. Stesso luogo, stesse emozioni…
In questa rubrica che affronta scientificamente il tema dell’impiantistica sportiva, ho chiesto a un esperto di questo tema, Fabio Argentini che è anche il responsabile della comunicazione di ASI, di raccontare l’epopea dell’Olimpico. L’autore ha scritto uno dei libri più importanti su questo argomento: “Foro Italico, città dello sport tra passato, presente e futuro”.
Fabio Bugli
Olimpico. Settant’anni di storia
di Fabio Argentini
Il fiore all’occhiello, il colpo di pennello che esalta ancora di più un’opera monumentale, quella del Foro. È lo stadio delle Olimpiadi. Una pietra miliare di una città, destinata a brillare per sempre…
Quando in Finlandia, nel 1952, si stanno svolgendo Giochi tra i più importanti del dopoguerra, quelli in cui l’Unione Sovietica rompe il ghiaccio e paradossalmente estende il concetto di Guerra fredda allo sport, in una zona del Foro Italico di Roma si lavora già a pieno regime da quasi due anni. È la Roma degli anni Cinquanta. Un giorno di marzo del 1956 Piazza San Pietro sembrava la Piazza Rossa a Mosca, mentre persino i monumenti, con aria stupita, sembravano domandarsi cosa ci facesse tutta quelle neve a coprire le loro austere chiome. Ma è una splendida eccezione. Perché quella Roma te la immagini sempre con il sole, come se anche d’estate una tramontana travestita da scirocco si incaricasse di spazzare via qualsiasi nube che riporti alla mente quella ferita troppo recente per essere già rimarginata chiamata guerra.
Un clima da Vacanze romane – Gregory Peck e Audrey Hepburn non hanno bisogno mica della pioggia per i baci di ”Vacanze romane”, e quei ”Poveri ma belli” di Maurizio Arena e Renato Salvatori il fisico lo fanno vedere in costume in riva a un Tevere ancora pulito.
C’è il sole pure quel giorno, il 17 maggio 1953. Due anni e mezzo dopo l’inizio dei lavori di ampliamento dello stadio, la grande opera è pronta. Lo Stadio Olimpico sarà il passaporto perché l’Italia possa affermarsi nel mondo organizzando le Olimpiadi del 1960. Ai Giochi mancano però ancora sette anni, ora è il momento di inaugurare l’impianto. E non può essere una giornata qualunque…
L’Italia del 1953 a livello sportivo ha parecchie passioni popolari. Dovendo però scegliere tre sport che infiammano l’immaginario collettivo, questi sono Calcio, Ciclismo e Pugilato.
Calcio e Ciclismo possono coesistere, e quel giorno c’è una tappa del Giro d’Italia. Duecentoottantadue km, si parte da Napoli e si arriva a Roma. Una occasione troppo ghiotta per farsela scappare: Coppi, Bartali, Koblet e tanti altri campioni amatissimi arriveranno sulla pista dello stadio.
Prima però si giocherà al Calcio, ed anche qui si pensa al massimo, ai Coppi e Bartali del pallone. Si potrebbe invitare la squadra campione del mondo: è l’Uruguay che tre anni prima ha zittito il Maracanà di Rio de Janeiro battendo il Brasile. Ancora però all’epoca le trasferte intercontinentali sono abbastanza rare: motivi logistici, per avere una sfida Italia-Uruguay, o Italia-Brasile, o Italia-Argentina bisogna aspettare che il fato le incroci in un Campionato del Mondo oppure in una Olimpiade. E allora, se non si chiamano i campioni del Mondo, si può ripiegare sui più forti del Mondo. Il miglior calcio si gioca sulle rive del Danubio. L’Ungheria non perde una partita da tre anni, ma quello sarebbe un particolare, pur non secondario, non certamente decisivo. È il modo con il quale non perde, dando spettacolo in ogni dove, proponendo novità tattiche che per il calcio dell’epoca sono la scoperta dell’America. Il Cristoforo Colombo di quella truppa è Gustav Sebes, che con l’equipaggio che si ritrova è difficile sbagli rotta. L’Ungheria è sempre stata una grande scuola. Lo era anche negli anni Trenta, quando arrivò a giocarsi la finale mondiale del 1938 proprio contro l’Italia.
Ferenc e gli altri – Quell’Ungheria rappresenta una irripetibile congiunzione astrale: è una squadra con un fuoriclasse planetario, Ferenc Puskas, altri tre, quattro fuoriclasse anche se non planetari, il resto campioni e ottimi giocatori.
All’Olimpico, quanto sia grande l’attesa lo capisci dal passo della gente mentre si avvicina allo stadio: è svelto, impaziente. Se la prende comoda l’invitato più illustre: è il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, che avanza con l’aiuto di un bastone, seguito da altre personalità. Tra queste un politico giovane ma già affermato: lui nel nuovo Stadio Olimpico ha messo molta della sua sapienza. Presiede il comitato organizzatore dei Giochi di Roma 1960, si chiama Giulio Andreotti.
Il sole rimbalza sui gradoni dello stadio, ma in un batter d’occhio una marea umana farà da scudo. Ottantamila spettatori che iniziano a stropicciarsi gli occhi per quello che per l’epoca funge da effetto speciale. Cinque enormi palloni si liberano nel cielo: ognuno ha un colore dei cerchi olimpici. È a questo punto che probabilmente i calciatori azzurri, fino a quel punto parte della festa, iniziano a sentire il peso della responsabilità, dover giocare una partita che andrà dritta dritta ai posteri.
La Nazionale Azzurra è ancora in una lunga fase di ricostruzione dopo la tragedia di Superga, che quattro anni prima ha spezzato il destino del Grande Torino.
L’Ungheria è un’altra cosa – L’avversaria è l’Ungheria e già l’anno prima a Helsinki la sfida non ha avuto storia, con i magiari vincitori per 3-0. Vero, stavolta però l’Italia non schiera gli universitari: in campo va la Nazionale maggiore. Non c’è un solo ct, ma una diarchia tecnica composta da Beretta e da uno dei giocatori più forti di ogni tempo: si chiama Giuseppe Meazza, ma ancora sono tantissimi quelli che lo chiamano il Balilla. No, la famosa automobile degli anni Trenta non c’entra nulla. E che quando l’Inter lo aveva fatto giocare nella massima serie, era praticamente un ragazzino e nel Ventennio i ragazzini venivano chiamati appunto Balilla. I due tecnici non è che inventino niente di nuovo. La loro è una miscela di ingredienti di calcio semplice. C’è uno che para: è il quarto dei Sentimenti, la celebre dinastia di portieri. C’è uno che ha una intelligenza calcistica avanti di una ventina d’anni: è l’anima della mediana, si chiama Giampiero Boniperti. C’è uno fantasioso, un giocatore quasi completo: quasi, perché gli manca la dote del colpo di testa. Viene da Frascati, dove la sua famiglia gestisce un forno, e non a caso il suo soprannome è il “Fornaretto”, uno dei pochi per i quali Roma ha aggiunto l’ottavo re, è Amadeo Amadei. Ma l’Ungheria è un’altra cosa.
L’Italia tra i marmi dell’Olimpico – Le squadre entrano in campo. L’Italia con la classica maglia azzurra, l’Ungheria tutta in bianco con la casacca cerchiata di rosso e verde: è la stessa tenuta che aveva l’anno prima nella finale olimpica vinta con la Jugoslavia. È stato in quella partita che il mitico telecronista Gyorgy Szepesi aveva urlato al popolo ungherese attaccato alla radio che era nata la squadra d’oro. L’Italia se la cava benino per una ventina di minuti, poi il buio. Hidegutki manda i magiari al riposo sopra di una rete. Poi nella ripresa c’è Puskas, tanto Puskas. Venturi, quando il ‘Colonnello’ esegue un dribbling secco in area prima di battere Sentimenti, è come se entrasse in territorio lunare e non riuscisse a coordinarsi velocemente per evitare il peggio. E Bortoletto: lui in Nazionale non ci ha ancora mai giocato, è la sua prima. Insomma, altro che battesimo del fuoco. Beretta e Meazza lo mandano proprio sulle tracce di Puskas. Per il granatiere che viene dal Veneto, è come seguire il destino: in qualche modo pensi di poterlo pilotare, ma alla fine decide sempre lui. Il destino si chiama Ferenc anche il occasione del terzo gol: una palla vacante in una zona nella quale Bortoletto arriva dopo che Puskas con una giocata repentina l’ha già scaricata sotto l’incrocio del pali.
Finisce la partita, la gente applaude gli ungheresi, ma nessuno si muove dal proprio posto. Arriva il drappello di fuggitivi della tappa del Giro: la vince Giuseppe Minardi. Lui, eroe per un giorno, vicino a Puskas, eroe per sempre: due firme così vicine e così lontane, è iniziata la maglia dello Stadio Olimpico.
Quattro versioni e un set.
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Foro. Poteva essere dieci volte più grandeL’ultimo piano regolatore, quello del 1941, non venne mai realizzato. Di quei piani rimane qualche disegno su carta ingiallita. Prevedeva che il Foro Mussolini avesse un’estensione dieci volte superiore all’attuale Foro Italico. Un polmone verde, in cui sport e cultura avrebbero rappresentato un modello per il mondo intero, preservando l’area da incuria, strateghi della politica e palazzinari. Nel profilo in giallo c’è il Foro Italico dei giorni nostri. Tutta intorno l’area dieci volte più estesa che, nei piani degli architetti, avrebbe dovuto prevedere una deviazione del Tevere e la nascita di una nuova isola al suo interno, aree boschive, impianti sportivi, culturali e aggregativi. La guerra fermò tutto. |