Donate dalle provincie

Quale è l’impianto sportivo nel quale si possano sentire rappresentati tutti gli italiani?
Questa è la piacevole e pigra domanda che ci siamo posti davanti alla necessità di scegliere il tema simbolico per l’articolo introduttivo di questa nuova rubrica, e che ora giro, come un gioco di società, a quanti vorranno leggere queste righe.
La logica ci ha portati immediatamente verso il Foro Italico di Roma, luogo simbolo della storia dello sport italiano da quasi 100 anni: le Olimpiadi del 1960, i Mondiali di Calcio del 1990, due edizioni dei Mondiali di Nuoto, il 6 Nazioni di Rugby… l’elenco degli eventi che vi si sono svolti è ghiotto e molto lungo, e sicuramente non c’è nessuno, tra tutti noi, che non si sia emozionato assistendo ad almeno una dozzina di avvenimenti accaduti in tale area.
Troppo facile però, oltre agli eventi l’area del Foro Italico rappresenta una multidisciplinarietà di specialità sportive legate al fatto di essere un luogo, e non un solo impianto; a questo punto la domanda iniziale ha la necessità di entrare più in profondità: quale impianto per quale sport può rappresentarci, non in modalità di tifo campanilistico, ma cogliendo qualcosa che sentiamo dentro di noi, uno spirito di appartenenza, di comunità?
Una miriade di eventi positivi mi affolla la mente: Mancini che solleva la coppa agli europei, il terzo tempo dei tornei di Rugby, gli affondi del fioretto di Bebe Vio, le lacrime di Federica Pellegrini, Marcel Jacobs che solleva da terra Tamperi… eccolo!!!
È ancora Lei, l’indiscussa Regina di tutti gli sport, il simbolo olimpico per eccellenza: l’Atletica Leggera.  E il suo tempio, simbolico per i 150 anni della nostra giovane Italia? Lo Stadio dei Marmi, naturalmente.

Correva l’anno 1928. Mussolini aveva iniziato la grande trasformazione urbanistica della Capitale, che avrebbe portato in luce i Fori Imperiali sottraendoli alle superfetazioni e sovracostruzioni che nei secoli li avevano ostruiti e occlusi. Ad un giovane trentenne, Sottosegretario all’Educazione Fisica, affida l’incarico di realizzare il luogo simbolo della più importante opera del Regime, quella a cui vuole che venga dato il suo stesso nome: il Foro Mussolini.
Renato Ricci non si lascia intimidire dalla sfida, ed in un decennio chiama a raccolta i migliori e giovanissimi architetti ed ingegneri del periodo: Enrico Del Debbio, Costantino Costantini, Luigi Moretti, e poi Fasolo, Paniconi, Pediconi…
In uno splendido film Luigi Zampa li chiamerà gli Anni Ruggenti: sicuramente, dopo Raffaello e Michelangelo, mai in Italia un movimento culturale ed architettonico aveva più avuto così tanto spazio e respiro, e soprattutto appoggio incondizionato dalla classe dirigente politica, come il Razionalismo ed il Futurismo.
Tocca all’arch. Enrico Del Debbio, trentacinquenne nominato Capo-Architetto dell’Opera Nazionale Balilla (e da 5 anni era già professore di disegno architettonico presso il Regio Istituto di Belle Arti) redigere il primo piano regolatore dell’area che, anche nelle successive modifiche, per grandi linee rappresenta la forma e la distribuzione che il Foro ha sempre mantenuto.
Nelle scelte estetiche di Del Debbio, lo Stadio dei Marmi rappresenta un tutt’uno con l’Accademia di Educazione Fisica – ora nota con il nome di “Palazzo H”, sede del CONI – realizzando una prospettiva unica, nell’attraversamento sotto il grande arco che unisce i due corpi di fabbrica all’altezza del primo piano, in origine aperto e liberamente percorribile, oggi chiuso da una grande vetrata che permette comunque di vedere attraverso, e così ammirare i Marmi da un lato e lungotevere dall’altro.
Il disegno dell’area prevedeva fin da subito la posizione dei grandi corpi sportivi – Marmi, Olimpico, Tennis – ottenuto lasciando per tali impianti la quota del terreno originale, rialzando invece le aree circostanti su cui dovevano venire realizzati gli edifici ed i percorsi. In questo modo, anticipando di decenni le “linee guida” dell’architettura sportiva moderna, veniva assicurato un basso impatto ambientale degli impianti sportivi, che risultano incassati nel terreno, riducendo al minimo il loro impatto visivo verso Monte Mario e per l’intera fruibilità dell’area.
Ad un disegno urbanistico ed ambientale così moderno, Del Debbio associa uno stile architettonico schematico, nitido, rielaborando i riferimenti classici – colonne, statue, ordinate cadenze delle cornici in marmo bianco di finestre ed archi – in una pulizia assoluta di sapore metafisico.
Nasce così lo Stadio dei Marmi, preciso riferimento agli stadi dell’antica Grecia olimpionica, senza per questo rinunciare alla sua razionale e moderna fruizione; ed arricchito dal tocco magistrale dell’Architetto, che fa posizionare sul corsello superiore delle ininterrotte gradonate 60 basamenti in marmo, tutti equidistanti ed uguali tra loro: sono i basamenti sui quali le 60 Province d’Italia faranno posare le statue, donate una per ciascuna provincia, che rappresentano tutte le discipline sportive conosciute. Sculture di 4 metri d’altezza ciascuna, intorno alle quali il pubblico poteva liberamente passeggiare, ammirare le pendici di Monte Mario sullo sfondo e scendere nelle gradonate sottostanti.
Un mosaico in tessere bianche e nere, raffigurante atleti in attività, posato ai piedi della rampa di accesso dello Stadio, conduce gli atleti dagli spogliatoi verso il campo di gara. Nascosto sottoterra, un cunicolo carrabile permette alle autorità di raggiungere in automobile la tribuna d’onore, anch’essa rivestita in marmo bianco di Carrara, arricchita da due gruppi bronzei di lottatori ai due lati. A metà della curva nord, sotto la statua del marinaio donata dalla Provincia di Venezia, un cancello permette il passaggio al tunnel sotterraneo di collegamento allo Stadio Olimpico.
Proprio lì davanti, nell’estate del 1960, i Giudici di Gara della Grande Olimpiade di Roma, nella loro elegante divisa azzurro e bianco, e protetti da un cappello “panama” bianco in testa, con il megafono in mano chiamavano ad alta voce gli atleti che completavano i loro riscaldamenti: “Presentarsi i finalisti dei 200 metri piani, sig. Livio Berruti…”.

 

La statua di Primo Carnera

Primo Carnera è campione dei Pesi Massimi tra il 1933 e il 1934. Conquista il titolo mondiale al Madison Square Garden di New York in un match memorabile contro Jack Sharkey. E diviene subito una leggenda a livello nazionale e internazionale nonché il primo italiano a conquistare il titolo dei Pesi Massimi. La provincia di Ascoli Piceno, chiamata a donare la propria statua, decide di raffigurare simbolicamente Carnera.

La statua, senza firma, viene attribuita a Francesco Messina e datata 1933. La notizia è tratta dal volume “Foro Italico, città dello sport tra passato, presente e futuro”, punto di riferimento importantissimo, scritto dal nostro Responsabile della Comunicazione, Fabio Argentini, con la copertina dedicata proprio allo Stadio dei Marmi. 


 

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