07.08.2021

Sportivando

Orgoglio nazionale distratto

Dalla rivista Primato, agosto-settembre 2021.

I successi italiani alle paralimpiadi non hanno alle spalle una cultura della disabilità

Le Paralimpiadi di quest’anno sono state quelle più vincenti di sempre per l’Italia che ha guadagnato il 9° posto nella classi- fica generale con 69 medaglie complessive: 14 ori, 29 argenti e 26 bronzi, in ben 11 differenti discipline. La maggior parte delle vittorie sono arrivate dal nuoto e dall’hand- bike, ma molte altre sono state le discipline grazie a cui il tricolore è salito sul podio. Segno di un movimento in ottima salute che si è prodigato trasversalmente per consentire ai suoi atleti di brillare nelle occasioni internazionali.
Ma questa forza è stata accompagnata da un convinto e lineare sostegno da parte del sistema nei periodi che hanno preceduto il grande evento? La domanda non è retorica, né banale, perché, mentre l’ubriacatura da tricolore è piuttosto scontata in situazioni come questa, ben più complesso è capire come mai quel sistema che oggi gioisce per le vittorie dei nostri atleti paralimpici e parla dei trionfi dell’Italia dello sport abbia fatto molto poco nel corso del tempo per facilitarle. Non è voglia di far polemica a tutti costi, semmai desiderio di valorizzare – se possibile – ancora di più quelle medaglie, triplicandone il valore. Metalli vinti tra grandi difficoltà, pregiudizi e senza grande supporto pubblico – diciamo con il minimo sindacale.
Lo dicono i dati: il Comitato Olimpico Nazionale Italiano nel corso del tempo (parliamo prima della riforma che ha interessato lo sport) ha ricevuto molto più sostegno economico rispetto al Comitato Italiano Paralimpico.
Qualcuno potrebbe dire: le risorse vengono date (anche) in funzione dei numeri. Pertanto, è ragionevole che, avendo il CONI più tesserati rispetto al CIP, il primo abbia diritto a maggior aiuto da parte dello Stato. Vero, risponderemo noi, ma l’Italia deve decidere se essere un Paese impegnato nella promozione di una cultura della disabilità durante tutti i 365 giorni dell’anno o se, invece, l’inclusione sia un obiettivo da raggiungere solo funzionalmente, quando le telecamere si accendono e ci sono interessi di immagine da tutelare. Nel primo caso – suggerimento non richiesto ma necessario per il Ministro delle disabilità del governo Draghi Erika Stefani – andrebbero studiati criteri per trasformare un meccanismo quantitativo (il finanziamento prevalentemente in base alle performance) in qualcosa anche di qualitativo.
Al momento, però, osserviamo una realtà diversa. I riflettori sono normalmente puntati su Giovanni Malagò e il suo CONI, mentre nessuno parla del CIP e dei meriti che il presidente Pancalli ha avuto nel costruire questa splendida realtà sportiva, portandola a quel livello di eccellenza per cui oggi gioiamo. D’altra parte, con molta onestà, né Pancalli né alcun dirigente ha fino ad oggi commentato i trionfi italiani dipingendoli come il prodotto di una cultura dei diversamente abili diffusa nel nostro Paese. Perché questa cultura è veramente debole. Possiamo anche non allontanarci molto dalle Olimpiadi per darvene prova: pensate, ad esempio, al fatto che Casa Italia è stata chiusa dopo la conclusione dei Giochi dei normodotati. Come se le vittorie dei paralimpici non avessero la medesima legittimità di celebrazioni.
Ma sono molti altri i fatti che lo raccontano – sempre in tema di sport, è sufficiente pensare a come il rifiuto da parte del sindaco di Roma Virginia Raggi a presentare la candidatura della Capitale come luogo per le Olimpiadi 2020 (quelle poi aggiudicate da Tokyo) sia stata un’occasione mancata per tanti motivi, tra cui la possibilità di ripensare la città in termini di accessibilità e la possibilità di costruire una diversa immagine della disabilità.
La verità, dunque, è che l’ubriacatura tricolore all’indomani delle Paralimpiadi di Tokyo ha alle spalle una cultura sportiva acerba. L’Italia (e la maggioranza degli italiani, anche tifosi) fa fatica a considerare lo sport come un reale strumento di inclusione, pensato per stimolare il benessere psico-fisico delle persone e garantire ai diversamente abili la possibilità di sviluppare i loro talenti e di vivere integrati nella comunità di cui fanno parte.

Domani gli eroi paralimpici occuperanno ancora le prime pagine dei giornali o dovranno ricominciare a lottare per l’abbattimento delle barriere architettoniche, per la conquista di diritti civili e sociali che dovrebbero, in un paese moderno, essere automatici? Abbiamo timore di rispondere. Ci limitiamo ad osservare la differenza tra la compostezza dei festeggiamenti di atleti e dirigenti paralimpici rispetto a quella di atleti e dirigenti CONI. E’ una lezione di vita anche questa da prendere seriamente.

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