Olimpico. Settant’anni di storia

È il 1953 quando l’Italia scende in campo contro la grande Ungheria di Puskas. È l’inaugurazione dello Stadio Olimpico, realizzato per i Giochi del 1960 con sette anni di anticipo e che compie 70 anni. E addirittura novanta se torniamo ancora indietro nel tempo al primo invaso con le tribune d’erba intorno denominato Stadio dei Cipressi. Stesso luogo, stesse emozioni…
In questa rubrica che affronta scientificamente il tema dell’impiantistica sportiva, ho chiesto a un esperto di questo tema, Fabio Argentini che è anche il responsabile della comunicazione di ASI, di raccontare l’epopea dell’Olimpico. L’autore ha scritto uno dei libri più importanti su questo argomento: “Foro Italico, città dello sport tra passato, presente e futuro”.

Fabio Bugli

 


Olimpico. Settant’anni di storia

di Fabio Argentini

Il fiore all’occhiello, il colpo di pennello che esalta ancora di più un’opera monumentale, quella del Foro. È lo stadio delle Olimpiadi. Una pietra miliare di una città, destinata a brillare per sempre…

Quando in Finlandia, nel 1952, si stanno svolgendo Giochi tra i più importanti del dopoguerra, quelli in cui l’Unione Sovietica rompe il ghiaccio e paradossalmente estende il concetto di Guerra fredda allo sport, in una zona del Foro Italico di Roma si lavora già a pieno regime da quasi due anni. È la Roma degli anni Cinquanta. Un giorno di marzo del 1956 Piazza San Pietro sembrava la Piazza Rossa a Mosca, mentre persino i monumenti, con aria stupita, sembravano domandarsi cosa ci facesse tutta quelle neve a coprire le loro austere chiome. Ma è una splendida eccezione. Perché quella Roma te la immagini sempre con il sole, come se anche d’estate una tramontana travestita da scirocco si incaricasse di spazzare via qualsiasi nube che riporti alla mente quella ferita troppo recente per essere già rimarginata chiamata guerra.

I capitani, Puskas e Boniperti, prima di Italia-Ungheria

Un clima da Vacanze romane – Gregory Peck e Audrey Hepburn non hanno bisogno mica della pioggia per i baci di ”Vacanze romane”, e quei ”Poveri ma belli” di Maurizio Arena e Renato Salvatori il fisico lo fanno vedere in costume in riva a un Tevere ancora pulito.
C’è il sole pure quel giorno, il 17 maggio 1953. Due anni e mezzo dopo l’inizio dei lavori di ampliamento dello stadio, la grande opera è pronta. Lo Stadio Olimpico sarà il passaporto perché l’Italia possa affermarsi nel mondo organizzando le Olimpiadi del 1960. Ai Giochi mancano però ancora sette anni, ora è il momento di inaugurare l’impianto. E non può essere una giornata qualunque…
L’Italia del 1953 a livello sportivo ha parecchie passioni popolari. Dovendo però scegliere tre sport che infiammano l’immaginario collettivo, questi sono Calcio, Ciclismo e Pugilato.
Calcio e Ciclismo possono coesistere, e quel giorno c’è una tappa del Giro d’Italia. Duecentoottantadue km, si parte da Napoli e si arriva a Roma. Una occasione troppo ghiotta per farsela scappare: Coppi, Bartali, Koblet e tanti altri campioni amatissimi arriveranno sulla pista dello stadio.
Prima però si giocherà al Calcio, ed anche qui si pensa al massimo, ai Coppi e Bartali del pallone. Si potrebbe invitare la squadra campione del mondo: è l’Uruguay che tre anni prima ha zittito il Maracanà di Rio de Janeiro battendo il Brasile. Ancora però all’epoca le trasferte intercontinentali sono abbastanza rare: motivi logistici, per avere una sfida Italia-Uruguay, o Italia-Brasile, o Italia-Argentina bisogna aspettare che il fato le incroci in un Campionato del Mondo oppure in una Olimpiade. E allora, se non si chiamano i campioni del Mondo, si può ripiegare sui più forti del Mondo. Il miglior calcio si gioca sulle rive del Danubio. L’Ungheria non perde una partita da tre anni, ma quello sarebbe un particolare, pur non secondario, non certamente decisivo. È il modo con il quale non perde, dando spettacolo in ogni dove, proponendo novità tattiche che per il calcio dell’epoca sono la scoperta dell’America. Il Cristoforo Colombo di quella truppa è Gustav Sebes, che con l’equipaggio che si ritrova è difficile sbagli rotta. L’Ungheria è sempre stata una grande scuola. Lo era anche negli anni Trenta, quando arrivò a giocarsi la finale mondiale del 1938 proprio contro l’Italia.

Ferenc e gli altri – Quell’Ungheria rappresenta una irripetibile congiunzione astrale: è una squadra con un fuoriclasse planetario, Ferenc Puskas, altri tre, quattro fuoriclasse anche se non planetari, il resto campioni e ottimi giocatori.
All’Olimpico, quanto sia grande l’attesa lo capisci dal passo della gente mentre si avvicina allo stadio: è svelto, impaziente. Se la prende comoda l’invitato più illustre: è il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, che avanza con l’aiuto di un bastone, seguito da altre personalità. Tra queste un politico giovane ma già affermato: lui nel nuovo Stadio Olimpico ha messo molta della sua sapienza. Presiede il comitato organizzatore dei Giochi di Roma 1960, si chiama Giulio Andreotti.
Il sole rimbalza sui gradoni dello stadio, ma in un batter d’occhio una marea umana farà da scudo. Ottantamila spettatori che iniziano a stropicciarsi gli occhi per quello che per l’epoca funge da effetto speciale. Cinque enormi palloni si liberano nel cielo: ognuno ha un colore dei cerchi olimpici. È a questo punto che probabilmente i calciatori azzurri, fino a quel punto parte della festa, iniziano a sentire il peso della responsabilità, dover giocare una partita che andrà dritta dritta ai posteri.
La Nazionale Azzurra è ancora in una lunga fase di ricostruzione dopo la tragedia di Superga, che quattro anni prima ha spezzato il destino del Grande Torino.

L’Ungheria è un’altra cosa – L’avversaria è l’Ungheria e già l’anno prima a Helsinki la sfida non ha avuto storia, con i magiari vincitori per 3-0. Vero, stavolta però l’Italia non schiera gli universitari: in campo va la Nazionale maggiore. Non c’è un solo ct, ma una diarchia tecnica composta da Beretta e da uno dei giocatori più forti di ogni tempo: si chiama Giuseppe Meazza, ma ancora sono tantissimi quelli che lo chiamano il Balilla. No, la famosa automobile degli anni Trenta non c’entra nulla. E che quando l’Inter lo aveva fatto giocare nella massima serie, era praticamente un ragazzino e nel Ventennio i ragazzini venivano chiamati appunto Balilla. I due tecnici non è che inventino niente di nuovo. La loro è una miscela di ingredienti di calcio semplice. C’è uno che para: è il quarto dei Sentimenti, la celebre dinastia di portieri. C’è uno che ha una intelligenza calcistica avanti di una ventina d’anni: è l’anima della mediana, si chiama Giampiero Boniperti. C’è uno fantasioso, un giocatore quasi completo: quasi, perché gli manca la dote del colpo di testa. Viene da Frascati, dove la sua famiglia gestisce un forno, e non a caso il suo soprannome è il “Fornaretto”, uno dei pochi per i quali Roma ha aggiunto l’ottavo re, è Amadeo Amadei. Ma l’Ungheria è un’altra cosa.

L’Italia tra i marmi dell’Olimpico – Le squadre entrano in campo.  L’Italia con la classica maglia azzurra, l’Ungheria tutta in bianco con la casacca cerchiata di rosso e verde: è la stessa tenuta che aveva l’anno prima nella finale olimpica vinta con la Jugoslavia. È stato in quella partita che il mitico telecronista Gyorgy Szepesi aveva urlato al popolo ungherese attaccato alla radio che era nata la squadra d’oro. L’Italia se la cava benino per una ventina di minuti, poi il buio. Hidegutki manda i magiari al riposo sopra di una rete. Poi nella ripresa c’è Puskas, tanto Puskas. Venturi, quando il ‘Colonnello’ esegue un dribbling secco in area prima di battere Sentimenti, è come se entrasse in territorio lunare e non riuscisse a coordinarsi velocemente per evitare il peggio. E Bortoletto: lui in Nazionale non ci ha ancora mai giocato, è la sua prima. Insomma, altro che battesimo del fuoco. Beretta e Meazza lo mandano proprio sulle tracce di Puskas. Per il granatiere che viene dal Veneto, è come seguire il destino: in qualche modo pensi di poterlo pilotare, ma alla fine decide sempre lui. Il destino si chiama Ferenc anche il occasione del terzo gol: una palla vacante in una zona nella quale Bortoletto arriva dopo che Puskas con una giocata repentina l’ha già scaricata sotto l’incrocio del pali.
Finisce la partita, la gente applaude gli ungheresi, ma nessuno si muove dal proprio posto. Arriva il drappello di fuggitivi della tappa del Giro: la vince Giuseppe Minardi. Lui, eroe per un giorno, vicino a Puskas, eroe per sempre: due firme così vicine e così lontane, è iniziata la maglia dello Stadio Olimpico.

 

Quattro versioni e un set.
Ecco la storia dell’Olimpico ⬇︎

All’inizio si chiamava “Stadio dei Cipressi” perché intorno saranno piantati centinaia di alberi a fare da perimetro tra lo spazio sportivo e le colline di Macchia Madama da una parte e il Tevere dall’altra. I filari cari alla poetica del Carducci e “ancora giovinetti”, allora non erano certo delle dimensioni di oggi. Così come l’impianto al quale avrebbero fatto da cornice. Ne saranno piantati 1.410 in tutta l’area del Foro. All’inizio, a dire il vero, di uno stadio vero e proprio non c’erano neanche le tribune: rispettando la cornice paesaggistica, lo stadio (un invaso con terrazze erbose) venne dunque appoggiato alla collina. Un campo buono per le attività scolastiche e giovanili e per le adunate di regime. Tutto qui.
Così inizia la storia, mentre sulle carte da lucido degli architetti già era scritto il futuro.
Intanto lo sport vero, a Roma, si praticava nel vicino Quartiere Flaminio: lì si faceva sul serio tra Tennis e Calcio, corse dei cani e quelle dei cavalli.

1932. Lo Stadio dei Cipressi

Il 4 novembre del 1932 le autorità del Governo e del partito tagliano il nastro del primo lotto del Foro Mussolini. Gli edifici che vengono inaugurati sono l’Accademia di Educazione Fisica, lo Stadio dei Marmi, il monolite e, appunto, lo Stadio dei Cipressi.

1937, il primo anello

In luogo delle terrazze erbose viene edificato nel 1937 un primo anello in marmo: quel che ne resta, è ancor oggi quel tratto della Tribuna Tevere denominato “parterre”.
La forma dello stadio è ovoidale, schiacciata ed estremamente allungata. La sua struttura è composta ora da quattro ordini di gradinate, di cui solamente quella inferiore, tuttavia, cinge interamente il campo. Gli altri tre, infatti, sono costruiti sul lato a ponente dello stadio, decrescendo verso l’alto. Il suo nome è “Stadio Olimpionico” che già svela la vocazione polisportiva. Infatti, la sua caratteristica principale è quella di essere, contemporaneamente, uno stadio destinato sì al Calcio, ma anche all’Atletica e al Rugby.
Prosegue anche l’assetto del verde. Insieme ai 1410 cipressi dei quali abbiamo già scritto, dal 1932 al 1942 sono piantati in tutto il Foro Mussolini circa 5.000 alberi delle più diverse specie, tra cui cedri del Libano, camelie del Giappone, lauri nobilis a siepe e a cespuglio, magnolie grandiflora, pini pinea, lecci e viburni tinus. Tutti i viali del Foro sono muniti di oltre mille bocche di presa per annaffiamento, oltre a circa mille irrigatori che, con grande economia del tempo, un solo manovratore può azionare comodamente nel giro di 60 minuti.

1939. Lo stadio in carpilite

«L’arrivo di Adolf Hitler mette a dura prova l’italica capacità costruttiva (e inventiva). Mancando il tempo per ultimare lo stadio, si ricorse a uno stratagemma: la tamponatura esterna dello stadio (con spalti di altezza uniforme) e le 24 torri sormontate dalle aquile littorie non furono costruite in muratura o cemento, bensì in pannelli di “carpilite” (ossia “pietra di Carpi”), materiale brevettato dall’ing. Gino Carpi e composto da cemento e paglia pressata, usato – tra l’altro – per le casette “Pater” delle borgate di San Basilio e Acilia. E per completare le gradinate si utilizzarono tavole di legno verniciate, come per l’inaugurazione del Panatenaico di Atene nel 1896», spiega lo storico Livio Toschi nel raccontare la visita a Roma del dittatore tedesco nel 1939.
Le immagini accelerate dell’Istituto Luce mostrano il viaggio dal Brennero a Roma, i festeggiamenti alla Stazione Ostiense, la prima giornata romana a Piazza di Siena, la manovra di guerra aerea a Furbara, l’esercitazione tattica a Santa Marinella, la rivista imperiale, il commiato da Roma con il saggio ginnico al Foro. Anche Ettore Scola sceglie quel viaggio per fare da sfondo alla storia di amore tra Antonietta e Gabriele, la Loren e Mastroianni.
Si scomoda anche la statua di Pasquino, muta voce del popolo romano che, proprio sul nuovo Olimpico abbellito per l’occasione, recita in quei giorni: “Povera Roma mia de travertino. T’hanno vestita tutta di cartone pe’ fatte rimira’ da ‘n’imbianchino”.
La sera dell’8 maggio, a conclusione della sua visita, Hitler assiste a un saggio ginnico e alla rappresentazione del Lohengrin di Wagner dal palco d’onore posto al centro dell’odierna Tribuna Tevere. Un suggestivo scenario venne montato ai piedi della collina frontistante, visibile attraverso la parte dello stadio lasciata appositamente priva di spalti. Tutto era magnifico e la penombra fu un’ottima alleata del regime e dei suoi trompe-l’oeil in quella metafisica distesa d’impianti sportivi. Possiamo immaginare il sorriso compiaciuto di Mussolini: uno stadio in carpilite aveva ammaliato il Führer.

La guerra ferma anche il Foro

All’improvviso, tutto si ferma, compresi i lavori del Foro. Comincia la guerra – che durerà fino al 1945 – che vede contrapporsi le potenze dell’Asse e i Paesi Alleati. È definito “mondiale” in quanto, così come già accaduto per la Grande Guerra, vi partecipano nazioni di tutti i continenti (61 stati di cui 51 contro il Terzo Reich) e le operazioni belliche interessano gran parte del pianeta.
Ciò che riassumiamo qui in poche righe – ma nessuno all’inizio della guerra ancora lo può sapere – comporterà all’umanità sei anni di sofferenze ed è considerato il più grande conflitto armato della storia, costato all’umanità quasi 60 milioni di morti. Centodieci milioni di uomini mobilitati per le attività belliche, 40 milioni le vittime in Europa e 15 nel Pacifico.
Poi, finalmente, la pace. I cannoni smettono di tuonare. Salvo, a mezzogiorno, quello del Gianicolo tradizione introdotta nel 1847 per avere un segnale unico dell’ora ufficiale, anziché il suono “scoordinato”, si disse, delle campane delle chiese cittadine. Si usava pure un cannone campale da 75mm, quello impiegato dall’artiglieria del Regno d’Italia per aprire la Breccia di Porta Pia… segni, anche questi, dei tempi che stavano cambiando. E delle statue parlanti contro il Papa e le sue guardie che potevano andare a meritata pensione.

1953. Arrivano i Giochi di Roma.
Lo stadio viene completato e diviene “Olimpico”

17 maggio del 1953: sette anni prima dell’Olimpiade (e questo già la dice lunga rispetto alla voglia di fare e di stupire. Ancor più guardando ai cantieri dei giorni nostri…), sulle solide spalle del primo anello in marmo di Carrara già esistente, ne sono edificati altri due in travertino preso dalla vicina Tivoli. Materiale così famoso per la sua raffinata qualità da divenire popolare nel mondo con il nome di “Travertino romano”, e largamente usato – o riusato, cavandolo dai monumenti antichi – dalla fine del medioevo fino ai giorni nostri.
L’Olimpico, capace di 82mila spettatori, si erge bianco e imponente su un terreno di 90.000 metri quadri. L’anello selezionatore esterno ha una lunghezza di m. 1.200. Le gradinate hanno uno sviluppo complessivo di circa 30 chilometri. Il campo di calcio di 105×70 metri, è circondato da una pista a 6 corsie, separata dal pubblico da un fossato lungo più di 500 metri e largo 2.
Il terreno di gioco si trova 4,50 m. sotto il piano stradale, così l’altezza massima fuori terra degli spalti è di soli 13 m. e si mimetizza tra le alberature. Nelle gradinate con sedili continui in legno si aprono 59 vomitori e il tempo di svuotamento dello stadio è di 11 minuti. Un mostro in termini di sicurezza. Che fa impallidire – non solo per i colori – l’altro Olimpico, quello dei giorni nostri.

1990. Il restyling per i Mondiali  

All’Olimpico viene assegnato il Campionato del Mondo di calcio, edizione 1990. Bello per l’Italia, meno per il Foro Italico che perde uno dei suoi monumenti. Lo stadio romano, straordinario nella sua fattura di marmo e travertino bianco, ma anche nelle sue linee movimentate viene buttato giù e ricostruito. Un monumento sacrificato alla… ”modernità”.
La copertura definitiva è una tensostruttura ancorata a una trave circolare che si appoggia su 16 pilastri cilindrici di acciaio (4 inglobati nei blocchi scale), esterni alle gradinate.
Le curve sono demolite e avvicinate di circa 9 metri.
Ciascuna delle due curve dispone di 23.473 posti. Beninteso, la denominazione “curve” è inizialmente comprensiva degli attuali distinti.
Interessante la soluzione utilizzata per la facciata esterna: la tamponatura dei due piani destinati agli uffici è realizzata con fasce continue di vetrate (courtain-wall). I tabelloni videomatriciali a colori misurano 10 metri per 18.
La Tribuna Monte Mario è stata ricostruita con la medesima tipologia: fondazione su pali di grande diametro, pilastri e travi principali in cemento armato e solai prefabbricati.
La Tribuna Tevere ha mantenuto il suo corpo originario ma è stata ampliata mediante una orditura di travi in legno lamellare che portano i gradoni di alluminio e poggiano su pilastri in cemento armato con un aumento di 20 file di posti.
Durante la cerimonia di apertura del Mondiale 1990, sfilano i modelli degli stilisti italiani e la canzone che fa da sottofondo richiama i sogni di una bella estate italiana.
La Nazionale italiana gioca a Roma le sue “notti magiche” e vince sempre. Perde solo con l’Argentina in semifinale nell’unica partita disputata a Napoli, peraltro con Diego Maradona in campo che, da quelle parti, non è proprio uno qualsiasi. L’Italia disputerà quella, di consolazione, proprio contro l’Inghilterra. Italia terza e tanti rimpianti. All’allegria della “sigla” d’inizio torneo cantata dagli idoli nostrani del rock Bennato-Giannini, farà da contraltare la sobrietà del Maestro Muti protagonista della cerimonia di chiusura.

Un impianto in continua evoluzione

L’Olimpico, da quei Mondiali, è rimasto immutato a livello strutturale. Non più monumento ma impianto ”aggiornato” secondo le esigenze internazionali. Non ha perso la sua centralità, anche grazie a una attenta gestione in grado di trasformare l’intera area del Foro a seconda dell’avvenimento ospitato. Oggi è sede di eventi prestigiosi di Tennis (su tutti gli Internazionali d’Italia), di Rugby (con il Sei Nazioni), di Atletica (capofila il Golden Gala), di Calcio tra Nazionale, Serie A, finale di Coppa Italia ormai in pianta stabile nella Capitale dal 2007 ed eventi straordinari: dalla finale della nuova Champions League nel 1996 e ancora nel 2009 alle colline di sabbia pronte a ospitare le piroette degli X-Fighters, funamboli in motocicletta con una cornice di pubblico altrettanto rumorosa.
L’Olimpico oggi accoglie la musica dei grandi interpreti anche se il primo concerto fu di Frank Sinatra, giovanissimo cantante per le truppe americane di stanza al Foro Italico.

 

 

Foro. Poteva essere dieci volte più grande

L’ultimo piano regolatore, quello del 1941, non venne mai realizzato. Di quei piani rimane qualche disegno su carta ingiallita. Prevedeva che il Foro Mussolini avesse un’estensione dieci volte superiore all’attuale Foro Italico. Un polmone verde, in cui sport e cultura avrebbero rappresentato un modello per il mondo intero, preservando l’area da incuria, strateghi della politica e palazzinari. Nel profilo in giallo c’è il Foro Italico dei giorni nostri. Tutta intorno l’area dieci volte più estesa che, nei piani degli architetti, avrebbe dovuto prevedere una deviazione del Tevere e la nascita di una nuova isola al suo interno, aree boschive, impianti sportivi, culturali e aggregativi.

La guerra fermò tutto.

 

 

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